'La figlia della fortuna' di Isabel Allende
L’atmosfera magica di un Sud America ottocentesco avvolge il lettore in dolci note fruttate. Preservando le dovute differenze, per le atmosfere, la ricchezza di personaggi ed alcune ambientazioni sembra di rivivere certe pagine di Cent’anni di solitudine.
Tuttavia, è evidente il tocco di penna femminile nell’evocazione di sopraffini sensazioni, nella delicatezza dei punti di vista e nella descrizione anche delle scene più cruente. Così femminile è anche l’accurata descrizione di vicende e sentimenti intrisi di una passionalità tutta rosa, fatta anche di tratti onirici seppur nella carnalità di un istante, di idealizzazione esponenziale dell’oggetto della passione, di sensualità dolce.
Personaggi fuggiaschi, ognuno in cerca di qualcosa,
si intrecciano lungo cammini interiori e percorsi reali, tracciando rotte
inesplorate che si estendono a tutto tondo, in lungo e in largo, su un globo che
ha tutto il sapore dell’attualissimo qui ed ora. Il giro intorno al mondo è
dinamico nel tempo e nello spazio, e viene percepito con lo sguardo di occhi di
volta in volta diversi, filtrato attraverso menti che colgono ciascuna alcuni
aspetti ed intingono il racconto di sfumature culturalmente divergenti ma
potenzialmente affini.
In
sequenza, il racconto parte dal Cile, paese di natii non più padroni delle loro
terre e di arroganti Europei che pretendono di adattare l’intero mondo al loro piccolo
mondo. Ma al Sud America si giunge dal lontano Regno Unito, da una Londra che
viene sentita stretta, solcando le acque di un immenso oceano che divide il
vecchio dal nuovo, il conosciuto dall’ignoto, attraverso viaggi della speranza che
nella stiva ammucchiano auspici di inizi di una nuova vita.
Una
corposa parentesi orientale prende vita ad un tratto nel romanzo, approdando in
una Cina leggendaria, celestiale
eppur crudele. È dapprima la Cina di chi la Cina l’ha vissuta; ma in seguito
diventa la Cina di chi se la porta dentro nel dondolio delle onde, docili o
tempestose, in un luogo sospeso in mezzo all’oceano; e se la porta dentro
ricostruendola su ogni terraferma che tocca, una Cina sempre nuova e sempre antica
nel tramandarsi di cultura e tradizioni. La saggezza ed i principi orientali la
fanno da padrone, ma si incontrano e si scontrano, ancora una volta, con
culture e con uomini diversi.
Un salto ancora ad Ovest, ed imperversa la febbre
dell’oro. In una California dorata e selvaggia, sorge egemone una San Francisco
che non solo è agli albori della civiltà, ma di civile ha ancora ben poco; è un
crocevia di persone, culture, nazioni, imbarcazioni che si affaccendano
numerose, impazienti di espellere il proprio carico di viaggiatori, merci,
sogni, aspettative, opportunità.
C’è
chi del mare, degli oceani, dello sciabordio delle onde, della brezza marina,
del timone, del gusto di scoprire sempre nuove terre e di scorgere entrare e
uscire dal proprio raggio di veduta e dalla propria vita persone, e persone e
ancora persone, ha fatto la propria esistenza. C’è chi, dopo una breve
parentesi di vita stabile, ha realizzato di non aver nulla da perdere ed è
partito in balia delle onde per approdare, adagiandosi, ovunque.
Ogni personaggio si svela solo parzialmente al mondo,
poiché in realtà porta dentro di sé mille segreti, mille vissuti che non osa
proferire, mille storie taciute. Eliza, il mistero fatto persona: dalla sua nascita
alla passione adolescenziale, alla capacità di rendersi invisibile, durante la
permanenza nella casa familiare così come durante il suo temerario viaggio intrapreso
per rincorrere un fantasma. Miss Rose, corazza razionale che imprigiona moti
passionali difficili da domare. Il capitano John Sommers, antipodo
dell’austerità e vagabondo marino. Tao Chi’en, occhi a mandorla assetato di
sapere, che cura anime e corpi in un abbraccio estatico, esalando vapori di
brezza marina. E ancora tante figure, a volte così bizzarre nella loro
semplicità (Mama Fresia, Jacob Todd, Paulina, Babalù il cattivo, Joe
Spaccaossa, le sing song girls) che
nel passaggio all’interno delle trecento pagine lasciano scie di propri aspetti
palesi e solchi di parti occultate. È per questo che non mancano i colpi di
scena, legati a qualcosa che improvvisamente emerge a galla, spinto dalla
necessità di respirare a pieni polmoni, o a qualcosa che si impone inevitabile
nel naturale susseguirsi della storia.
Tre aspetti conclusivi. Uno: la ricchezza olfattiva
di profumi e odori legati a cose, scene e soprattutto a persone (sembra quasi
un’ode continua e tra le righe alla memoria, che pure introduce il romanzo).
Due: il mare e l’oceano che intervallano l’attracco alla terra ferma, forieri
di cambiamento, simboli di evoluzione, evocatori di nostalgia e ricordi. Tre: uno
stile linguistico solo parzialmente commentabile, a causa della redazione in
lingua originale spagnola, ma meritevole di una nota sui numerosi termini riportati
in lingua originale (non solo spagnola, ma anche cinese e dello slang
americano), che rispecchiano in maniera coerente ed efficace questa
straordinaria cross-culturalità romanziera.
Il segno che mi hai lasciato...
"Quel che si dimentica è
come se non fosse mai successo, e i suoi ricordi reali o illusori erano
talmente tanti che per lei fu come vivere due volte. Diceva sempre al suo
fedele amico, il saggio Tao Chi’en, che la sua memoria era come il ventre della
nave su cui si erano conosciuti, buia e spaziosa, zeppa di casse, barili e
sacchi in cui si erano accumulati gli episodi di tutta la sua esistenza. Quando
era sveglia faticava a trovare qualcosa in quel sommo disordine, ma poteva
sempre farlo durante il sonno, proprio come le aveva insegnato Mama Fresia
nelle dolci notti d’infanzia, quando i contorni della realtà non erano che un
tratto sottile di inchiostro pallido. Entrava allora nel luogo dei sogni per un
sentiero più volte battuto e da lì faceva ritorno con tutta la cautela
necessaria per non straziare le tenui visioni alla luce aspra della coscienza."
Commenti
Un legame stretto, quello di quest'ultima recensione con la prima: torna un approccio più tecnico, più modulare, maggiormente incentrato sulla contestualizzazione del modus scrivendi, forse lo scritto più volutamente (o inconsciamente?) "recensione", più descrittivo, più didascalico.
L'incipit chiarisce fin da subito il criterio interpretativo: in quel "dolci note fruttate", dove "note" si fa ambiguità di gusto e di suono, deflagra istantaneamente la fusione multi-sensoriale, l'assaggiare i colori, l'ascoltare la carnalità a fil di pelle, il nervo scoperto della messa in discussione inter-culturale. Il viaggio.
In una parola: sinestesia.
Dell'anima. O del corpo?
Ma subito questa ipnosi percettiva si interrompe, la contemplazione cede il passo al "viaggio", irruento, sciabordante, fatto di scrosci di immagini, rapidi cambi di scenario, passi di danza che lambiscono la caratterizzazione dei personaggi ma no, non c'è tempo, il viaggio non ce lo concede, e si fa vortice travolgente, vertigine di poca memoria e di molta sensualità, mare tumultuoso di luoghi, di facce, di storie annegate nel segreto, di anime marinaie, di respiri "permessi nel finale" e di ritorni a galla fatalisti e privi di catarsi.
E' forse questa l'innovazione introdotta in questa terza recensione: usare il ritmo delle parole, la rapsodia, invece di porsi al centro della recensione come in "Inseparabili". Possiamo facilmente pensare che per Enza il viaggio è un'esperienza travolgente, da troncare il fiato, da rivivere in flash veloci e frammentati dove la funzione connettiva sta proprio nella percezione, nella reazione dei sensi, piuttosto che nella narrazione in sè o nella funzione mnemonica lineare.
Si conferma però quella sensazione, fin qui latente, di un distacco ricercato nel maggiore approfondimento del finale: tre soluzioni distanti, come scritte da tre neuroni in fuga. La prima, sensoriale, è in linea col magnifico inizio. La seconda, una similitudine, approfondisce il "motus" ondulatorio tra il significato e il movimento stilistico che forma il "corpo centrale" della recensione. La terza invece torna sull'approfondimento dello stile del testo dell'Allende, prima riccamente evocativo, qui invece esaminato dal punto di vista "multilinguistico".
Un finale, in verità, che lascia un po' di freddo addosso e non allontana l'idea che, per la prima volta, per cogliere davvero il senso della recensione occorre leggere il libro, per chiarire a se stessi quelle correlazioni tra nomi, luoghi, cose e città lambiti attraverso i flashback che si susseguono nella recensione.
Il segno che mi hai lasciato...
Dicotomia stilistica furibonda nell'affrontare il testo con più angolazioni, dove l'emozione finora era unica e singola, forse per questo più facile da comunicare. La lunghezza della recensione, che finora si assestava su circa 4000 battute, è qui quasi raddoppiata: una manifestazione dell'approccio multi-sensoriale? O di un libro più complesso, che ha lasciato graffi poco chiari e ancora poco sedimentati nell'anima della nostra blogger? Una scissione tradotta in testo della distanza tra la golosità di meraviglie e la razionalità analitica?
Ai postumi l'ardua sent-Enza.